Il bullismo e il cyberbullismo sono fenomeni che affliggono molte comunità e scuole in tutto il mondo, causando danni emotivi e psicologici duraturi nelle vittime. L’Istituto Comprensivo Virgilio di Sona, consapevole di quanto sia importante la prevenzione, anche quest’anno ha deciso di portare avanti il progetto di contrasto al bullismo e al cyberbullismo.
Il Baco da Seta ha incontrato la professoressa referente del progetto Lucrezia Ceriani per conoscere le peculiarità di questa edizione e di come l’esperienza ha avuto seguito in questi mesi.
Questo percorso progettuale è iniziato a gennaio di quest’anno, proponendo a tutte le classi della scuola secondaria di I grado un insieme di attività volte a favorire la discussione in classe. In particolare, l’obiettivo era di far emergere il punto di vista dei ragazzi e delle ragazze e le loro sensazioni a riguardo, uscendo da un approccio meramente statico e didattico. Dopo aver affrontato questa prima fase del percorso, gli studenti, insieme con le classi quinte della scuola primaria, hanno partecipato ad un incontro con l’ex senatrice Elena Ferrara, prima firmataria della legge 71/2017 in contrasto al cyberbullismo.
Come è poi proseguito il progetto?
La seconda parte del progetto, in collaborazione con le docenti di lettere, ha previsto la proposta di un concorso letterario che ha coinvolto tutti gli studenti dell’Istituto Virgilio. Il tema proposto richiedeva di descrivere un episodio di bullismo, prima dal punto di vista del bullo e poi dal punto di vista della vittima.
Qual è stato il riscontro da parte degli studenti ed il conseguente risultato?
Il risultato è stato sorprendente: i ragazzi si sono davvero calati nella parte, mettendo a nudo tutte le fragilità e le insicurezze tipiche di questa età tanto complessa; allo stesso tempo, però, si sono rivelati molto consapevoli della pericolosità e delle ferite profonde che questo fenomeno può creare.
Gli elaborati prodotti dagli studenti come sono stati valutati?
Ogni docente di lettere ha provveduto ad individuare per le proprie classi il tema migliore, creando una prima classifica. Questi elaborati sono poi stati letti da tutti i docenti dell’istituto, ognuno dei quali ha espresso una preferenza arrivando ad eleggere una terna tutta al femminile. Le vincitrici di questo concorso letterario sono infatti Sofia Lanza per le classi prime, Amelia Calabretto per le classi seconde e Sofia Romani per le classi terze.
Riportiamo di seguito il testo degli elaborati selezionati.
“La forza di reagire” di Sofia Lanza, classe 1^B
Sono Marco, ho 13 anni e vivo nei pressi di Roma. Sono cresciuto con un padre violento che mi picchiava quasi ogni sera e che minacciava mia madre altrettanto spesso. Poi, una sera d’agosto, non è più tornato a casa e mia madre non mi ha mai spiegato dove fosse finito.
Inizialmente a scuola mi sentivo a disagio, ora invece è cambiato tutto: sono il più forte della scuola, tutti mi rispettano. Il rispetto me lo guadagno con la forza, ma lo trovo giusto, perché anche gli altri devono provare quello che ho provato io durante l’infanzia.
La mia vittima preferita è Anna di 3^C, una grassona sfigata. I suoi amici li conti sulle dita delle mani, io invece ho un “esercito” di compagni a guardarmi le spalle. Oggi, mentre camminavo nel corridoio con alcuni dei miei amici, ho trovato Anna in bagno. L’ho chiusa dentro per qualche minuto, giusto per spaventarla un po’. Dopodiché l’ho fatta uscire e lì ho fatto cominciare il divertimento. L’abbiamo spinta, picchiata e insultata fino a farle uscire sangue dal naso ed a farla piangere. Cercava di urlare, ma uno del gruppo le ha tappato la bocca con forza e lei è diventata così rossa che pensavo stesse soffocando.
Questa situazione mi piace. I miei compagni mi guardano ridendo mentre la picchio. Per questo mi piace comportarmi così: gli altri mi rispettano. Dopo un po’ ci siamo stancati di lei, così l’abbiamo lasciata a terra. Sono tornato in classe pensando: è la cosa giusta? Il mio cervello vuole rispondere di sì, ma ora, per la prima volta, il cuore si oppone. Non sono mai stato in dubbio su questo mio comportamento, almeno finora. Ora dentro di me, sento un’emozione nuova e strana, è un misto di senso di colpa e delusione verso me stesso.
Quando arrivo a casa noto mia madre che mi aspetta sulla porta. Ha un’espressione talmente furiosa che mi tremano le gambe solo a guardarla. Questa è la sera in cui ho ricevuto la ramanzina più lunga e pesante della mia vita: Anna aveva informato una professoressa che a sua volta aveva chiamato mia madre. Ora sono chiuso in camera mia. Sto piangendo. Mi vedo più fragile che mai, ma almeno ho capito che, riguardo la domanda che mi sono posto prima, il cuore ha avuto la meglio: NO! Non è la cosa giusta!
Sono Anna, ho 13 anni e la mia vita è un inferno: mia madre sta spesso fuori per lavoro e andare a scuola per me è una battaglia continua. A scuola mi prendono in giro perché sono grassa, mi insultano sotto gli occhi di tutti, ma nessuno fa niente. Il compagno che temo di più è Marco di 3^A , con il suo gruppo di amici.
Oggi ero nel bagno della scuola e ad un tratto qualcuno mi ha chiusa dentro; sapevo benissimo chi era. Dopo qualche minuto, mi hanno fatto uscire e così ho confermato i miei sospetti: Marco con i suoi amici. Ma rinchiudermi nel bagno è stata la cosa meno grave che mi hanno fatto: poi hanno iniziato a picchiarmi e a insultarmi.
In quei minuti interminabili ho pensato che l’inferno, a confronto non era niente di che.
Il tempo non passava più, tra calci e pugni. Mi sanguinava il naso, ma non importava: volevo solo chiedere aiuto, ma mi tappavano la bocca. Ad un certo punto sono andati via e mi hanno lasciata a terra.
Appena mi sono ripresa, non ho guardato come ero ridotta, se sanguinavo ancora, ho pensato solo a correre da un professore: non potevo più sopportare queste umiliazioni. Ho preso il coraggio tra le mani e ho raccontato alla mia professoressa di italiano l’accaduto. Dopo averlo fatto, mi sono sentita infinitamente sollevata. Tornando a casa, pensavo a cosa sarebbe successo dopo, a come avrebbe reagito mia madre e a come avrebbe reagito quella di Marco.
Arrivata a casa, i miei genitori subito non mi hanno detto nulla, mi hanno solo abbracciato.
Nei giorni successivi mi sembrava di aver cambiato vita: non ero la più popolare della scuola ma almeno mi rispettavano. Sono orgogliosa di aver avuto la forza di reagire e di chiedere aiuto e la mia speranza è che anche altri ragazzi, vittime di bullismo, seguano il mio esempio.
“C’è sempre un perché” di Amelia Calabretto, classe 2^A
VITTIMA
Anche stamattina preferirei sprofondare nelle lenzuola e mettere la testa sotto il cuscino… in modo da isolarmi… da estraniarmi completamente da questo mondo crudele. Invece, controvoglia, metto giù i piedi dal letto e mi alzo barcollante, indosso gli occhiali spessi, mi specchio e, coprendomi con la mano la cicatrice sulla guancia, mi dico: “Sei un mostro”. Ed eccomi qua! Davanti al cancello del mio inferno. Aguzzo la vista per individuare il mio Lucifero, che, giorno dopo giorno, da quando sono entrato per la prima volta a scuola, mi divora.
Eccomi di nuovo a voi! Stranamente oggi è stata una giornata tranquilla! Non ho dovuto schivare nessuna pallina di carta, nessun temperino e neanche una forbice! È tutto troppo calmo… La sento, l’ultima campanella… quella che segna la fine dello strazio. Proprio nel momento della liberazione, vedo un’ombra possente sovrastare da dietro la mia. Mi volto e… beccato… è finita!
La prima cosa che vedo quando alzo lo sguardo sul suo viso è il suo sorrisetto sghembo: “Ecco qua il mostro!”, esclama a gran voce, e tutta la scuola mi accerchia ridendo di gusto. ”Benvenuti al rodeo”, aggiunge. La folla si accalca attorno a noi, tutti sanno cosa sta per accadere, ma nessuno fa niente. Il mio cervello mi dice di scappare, ma le gambe sono di pietra, tremo come una foglia; sono un bersaglio facile. Lui mi afferra e con forza mi butta sulla folla, che mi scansa subito per farmi schiantare al suolo. Ahia…che male… Una fitta al braccio mi impedisce di rimettermi in piedi, il dolore è assurdo, come se andasse a fuoco.
Serro gli occhi sia per il dolore che per la vergogna, sto lottando per non piangere. Non sento e non vedo più nulla, sento solo una ragazza che strilla. Sento anche una frase indirizzata al mio carnefice, “Questa volta l’hai fatta grossa, amico”. Le forze mi abbandonano, mi stringo in me stesso e sogno, sogno la fine e sogno un nuovo inizio.
BULLO
Anche stamattina avrei preferito sprofondare nei ricordi… nel mio oblio. Il ricordo di Sasha è ancora vivido nella mia testa, le sue mani sono ancora marchiate a fuoco sul mio corpo. “È colpa sua”, è lei che mi ordina di far male alle persone, è lei che mi dice che non devo essere l’unico a soffrire. Questa notte la mia mente mi ha riproposto il ricordo peggiore, il nostro primo incontro. Io avevo nove anni, lei diciotto, i capelli ambrati le ricadevano sinuosi sulle spalle, i suoi occhi nascondevano la sua crudeltà. Sembrava un angelo, ma solo… sembrava. A lei… a lei piaceva giocare, ma io la odiavo. Mi ricordo quando… BASTA!
Ed eccomi qua. Con la mia corazza di rabbia, marcio a testa alta tra i corridoi noiosi e asettici della mia scuola. Ho bisogno di sfogarmi, devo scaricare la tensione e i ricordi sul mio sacco da boxe… il mostro con gli occhiali spessi e con la cicatrice sulla guancia.
Oggi ha giocato proprio bene a nascondino il mostriciattolo, però al lupo non puoi sfuggire… trovato.
Sta camminando a testa bassa con la solita postura gobba. Mi avvicino alle sue spalle e noto che lo sovrasto completamente con la mia stazza. Quando si accorge della mia presenza si irrigidisce e comincia a tremare… sembra scosso da un terremoto. Mi viene da ridere. Non gli risparmio le mie battutine taglienti. Ad un certo punto, la mente mi si annebbia, non riesco più a pensare… sento solo Sasha prendermi dalla spalla e sussurrarmi: “Forza, fallo…”.
Non è la prima volta che faccio gli incubi ad occhi aperti… È stato tutto così veloce… Non me ne accorgo, lo scaglio a terra con forza, al momento dello schianto sento solo un suono di ossa rotte che mi fa rabbrividire. Mi sveglio dalla trance con un mio amico che mi dice solamente: “Questa volta l’hai fatta grossa, amico…”. Allora decido di fare quello che mi viene meglio in assoluto… cioè fuggire.
Il giorno dopo, io, il mostro e le nostre rispettive famiglie siamo convocati in presidenza. Espulso… a quanto pare il mostriciattolo… ha avuto la forza di parlare… quella cosa che io tanto temevo. Allora decido di prenderlo come spunto e racconto ai miei genitori cos’era successo anni prima… con la babysitter. Così ho cominciato una terapia da uno psicologo. Ormai è passato un anno dalla mia espulsione, e ragionandoci su… forse… così debole non era il mostro… o meglio, Charlie.
“Perché ho lasciato che accadesse’” di Sofia Romani, classe 3^D
“Slap!”. Il suono di uno schiaffo echeggia per i corridoi vuoti della scuola. Cala un silenzio tombale, l’unico rumore presente è il respiro pesante dei due ragazzi. Si guardano con gli occhi sbarrati, emozioni diverse li riempiono, una domanda prende il sopravvento nelle loro menti: “Perché l’ho lasciato accadere?”
Mi chiamo Andrea, ho quattordici anni e frequento la terza media. Sono bello forte e pieno di amici. Credo almeno, il loro modo di comportarsi attorno a me è sempre strano, quasi mi volessero evitare. Sto con loro, comunque, per non essere solo, non mi abbasserò mai a tale livello, non sarò mai come Mignolino. Esatto, Mignolino è un mio compagno di classe, il più basso di tutti, per questo si è aggiudicato il titolo.
Mi dà fastidio solo nominarlo, solo il pensiero di lui mi fa stringere i pugni. Allo stesso tempo ha un’utilità anche lui: una sua grande qualità è il silenzio. Non dice nulla, non si lamenta, non ne parla con gli altri. In questo periodo sono sempre triste, i miei compagni si distaccano, a casa i miei genitori parlano di divorzio e papà non mi guarda neanche negli occhi, a scuola i professori mi ignorano o mi rimproverano. Dormo male la notte, mi sento solo, anche se non lo ammetterò mai. Non posso far vedere questa tristezza, non posso sembrare debole, quindi la trasformo in rabbia, e questa rabbia la scarico su Mignolino. Lo prendo in giro, lo umilio di fronte ai compagni, gli rubo gli oggetti e lui, come bravo moccioso, sta muto.
Tutto però è un divertimento innocuo. Non ricordo come sia iniziato tutto ciò ma non penso finirà presto, tanto non è che importa, non è così profonda come faccenda. È tutto uno scherzo, per questo i compagni si limitano a guardare e ignorare e i professori a dare uno sguardo e a volte un richiamo. Nulla qui è serio, non sono un bullo, mi piace solo dargli fastidio in modo spiritoso come lui dà fastidio a me con la sua esistenza. Ah sì, la sua esistenza. È una cosa che non riesco a spiegare ma vederlo felice senza il bisogno di amici mi irrita. Vederlo che ride con suo padre mi dà fastidio. Vederlo essere lodato dai professori mi dà fastidio.
E questo fastidio si trasforma in rabbia, che scarico su di lui, perché è colpa sua, non perché sono un bullo, no. È una dinamica fra amici, non bullismo. A volte provo un po’ di pena per lui, ma non così tanta, perché è il nostro modo di scherzare, non è una situazione seria o grave. Mi è stato una volta suggerito che io sono geloso di lui. A volte ci penso ancora. Perché dovrei invidiarlo? Che sia perché non ha bisogno di circondarsi di persone per essere contento? Che sia perché i suoi genitori si curano di lui? Che sia perché è costantemente elogiato dai professori? No, non può essere, non importa di queste cose a me. Non sarò mai geloso, né un bullo, sono solo un burlone, tanto lui non soffre, non sta male, non è una vittima.
Non c’è bullismo se non c’è una vittima. Pensare così tanto a lui mi dà rabbia, oggi è già una giornata terribile e così la sto solo peggiorando. Mi sto arrabbiando, quindi devo cercarlo per sfogarmi, è colpa sua in fin dei conti. Lo cerco e lo vedo lì, alla mensa, seduto vicino alla ragazza che mi piace. Ma chi si crede questo Mollusco? Se non ero furioso prima lo sono definitivamente adesso. Non mi sono mai sentito così… arrabbiato? No, non è rabbia, non so come descrivere questo sentimento, ho sempre fatto fatica a parlare di emozioni.
Mi sento come se controllato da questo sentimento, non sto pensando, sto agendo e basta. Vado lì da lui, non gli urlo come al solito, lo prendo per il cappuccio e lo tiro fuori dalla mensa. Non l’avevo mai fatto prima, non ero mai stato così manesco, l’avevo raramente anche solo toccato. Lo sbatto contro la parete del corridoio, di solito sta calmo ma oggi sembra terrorizzato. Comincio a urlargli contro, non so bene quello che sto dicendo ma non sono belle parole.
Lui fa una cosa nuova che non aveva mai fatto prima: controbatte. Mi urla contro. E così non vedo più nulla. Sono infuriato, una belva. Alzo il braccio e prima che uno di noi due possa fiatare il mio palmo finisce sulla sua guancia. Aspetta cosa? Cosa ho appena fatto? Non ho mai alzato le mani prima. L’unica mia differenza da un bullo è che io non picchio ma adesso…? Sono un bullo, un mostro. Ci guardammo in silenzio. Mi sarei dovuto accorgere che stavo esagerando. Avrei dovuto capire di fermarmi. Perché l’ho lasciato accadere?
Mi chiamo Mattia, ho tredici anni e frequento la terza media. Non penso di essere molto bello, non sono atletico e non ho tanti amici. Non che mi dispiaccia ovviamente, preferisco stare solo che circondarmi di persone che non mi vogliono come Andrea. Non sarò mai come Andrea. È un mio compagno di classe, il più alto di tutti, mi ha dato il titolo di Mignolino per la mia statura. Nominarlo mi procura un’ansia tremenda, il cuore mi salta in gola per la paura.
Mi tratta come un oggetto, come se fossi qui solo per un uso specifico, quello di prendersi parole. Ovviamente io accetto questo ruolo. Non dico nulla, non mi lamento, non ne parlo con compagni, genitori o insegnanti. Lo vedo sempre arrabbiato ma so che usa tale emozione per nascondere la sua tristezza. Nessuno sa molto di lui, ma gira voce che i suoi genitori non gli vogliono bene. Inoltre, i professori lo detestano. Quasi mi dispiace per lui, mi fa pensare che si comporti così perché non sa come esprimersi. Quindi lo lascio sfogare su di me, tanto non è molto grave come cosa. Se qualcuno chiede, lui dice che è il nostro modo di scherzare e io annuisco, così compagni e docenti ci lasciano in pace. Mi è passato per la testa di essere vittima di bullismo. Che pensiero sciocco! È tutto un gioco innocuo. Non sono bullizzato.
Lui non è un bullo. Non so se le voci siano vere, ma anche se non lo fossero sono convinto che non è una cattiva persona, è solo ferito. Non potrei mai immaginare di vivere senza l’attenzione dei genitori o le lodi dei professori. Penso che sotto quella maschera da gradasso ci sia gelosia per la mia situazione. Non glielo direi mai in faccia però, ho troppa paura per parlargli o rispondergli. Tanto in fin dei conti è un timore stupido, sono solo parole, non mi ferisce veramente. Non è un bullo cattivo, non mi toccherebbe mai, e io non sono una vittima.
Pensare così tanto a lui mi agita, ma fortunatamente c’è Marta, una delle poche persone che mi parlano, che mi rassicura. Questo sentimento di relax però non dura molto. Stiamo pranzando quando lo vedo con gli occhi infuriati. Comincio ad andare nel panico, il pensiero di cosa potrebbe dirmi o di come potrebbe umiliarmi prende il sopravvento. Sono paralizzato, non l’ho mai visto così arrabbiato. Lui si avvicina ma… nessuna parola arriva.
Invece mi prende per il cappuccio e comincia a tirarmi fuori dalla mensa. Non l’ha mai fatto prima, mi ha raramente anche solo toccato. Le persone guardano in basso o continuano a parlare indifferenti. Mi sbatte contro la parete del corridoio, sono sempre stato calmo ma in questo momento nella mia mente è presente un panico che non so descrivere. Comincia ad urlarmi contro, nei suoi occhi vedo qualcosa che non è rabbia… delusione, forse? Sembra quasi che io l’abbia ferito. Non capisco perché. Tutto questo è molto diverso dalla solita presa in giro.
Questa novità mi fa perdere il controllo delle mie azioni per paura. Scatta il naturale riflesso di difesa e controbatto, non l’avevo mai fatto prima, non gli avevo mai urlato contro. Vedo la sua espressione cambiare: è il momento in cui entrambi realizziamo cosa ho appena fatto. Chiudo gli occhi per il terrore di cosa potrebbe dirmi, ma non arriva nessuna parola. In pochi secondi arriva un forte bruciore sulla mia guancia sinistra. Apro gli occhi. Cosa mi ha appena fatto? Non aveva mai alzato le mani prima. L’unica cosa che mi differenzia da una vittima è che non ero mai stato picchiato ma adesso…? Sono un bullizzato, una vittima debole. Ci guardiamo in silenzio. Avrei dovuto reagire, dire qualcosa, prima che potesse esagerare. Avrei dovuto accorgermi che non era uno scherzo. Perché l’ho lasciato accadere?
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